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STORIA
"All'inizio, in Italia, mi sentivo un estraneo in una terra che non mi apparteneva" – Ghaith, 16 anni, Tunisia

Mi chiamo Ghaith, ho 16 anni, sono tunisino e questa è la mia storia. Sono nato in Tunisia e lì ho vissuto fino all’età di 16 anni, quando ho deciso di emigrare via mare per l’Italia. Sono sbarcato a Lampedusa il 15 settembre 2023 a mezzanotte. 

Ho deciso di lasciare il mio Paese per diversi motivi. Il costo della vita è molto alto, non c’è libertà e ci sono molte disuguaglianze.  

Mia madre (48 anni) è sempre stata casalinga, mio padre (52 anni) è un muratore. Io sono l’ultimo di tre figli. Uno dei miei fratelli (27) gestisce un ristorante e l’altro (23) lavora nell’esercito nazionale. La mia famiglia rientra nella classe sociale media, non siamo ricchi ma non ci è mai mancato niente, grazie a Dio. 


Insieme ad alcuni amici, in cui io ero il più giovane, abbiamo creato un gruppo musicale. Di solito io mi occupavo di scrivere i testi delle canzoni e le parole che scrivevo erano più grandi di me e i miei amici ne rimanevano sempre stupiti. I testi delle mie canzoni parlavano della vita dei poveri e delle oppressioni della polizia. 

Facevo anche parte di un club della squadra di calcio Fedayn. Sono un tifoso accanito di questa squadra e compravo tutti i gadget, senza badare al prezzo. 

Vedendo molta gente emigrare via mare, ho iniziato a pensare che quella potesse essere la strada per me e così ho iniziato a lavorare giorno e notte per mettere da parte i soldi per il viaggio. Non è stato per niente facile. Ogni volta che la polizia capiva che avevo intenzione di andarmene mi prendeva e mi picchiava. Ho provato ad emigrare quattro volte.  quarta volta, grazie a Dio, sono riuscito a partire, pur attraversando diverse difficoltà. Prima di imbarcarci siamo stati due giorni in una casa vicino al mare. Eravamo 60 persone e c’era poco da mangiare e da bere. Avevo molta paura del mare. Dopo due giorni, una sera alle 18 sono arrivate due persone in macchina, ci hanno fatto prendere tutte le nostre cose e ci hanno portato in spiaggia. Con noi c’era il trafficante e c’erano anche altre persone che sorvegliavano la strada per evitare che la polizia ci scoprisse. Nel nostro gruppo c’erano anche 5 bambini di età compresa tra i 4 e i 5 anni, madri e una donna incinta. Alle 18:30 eravamo già in spiaggia in attesa di imbarcarci. Ci siamo imbarcati su un peschereccio. Quando la barca era già in mare abbiamo corso per circa 6 minuti per raggiungerla. Saliti sulla barca, mi sono accorto che erano con me erano armati di coltelli per intervenire se ci fosse stato qualche problema o se avessero tentato di buttarci in acqua. Tutto è andato bene per le prime due ore, poi un filo si è incastrato nel motore della barca e si è fermata. Grazie a Dio avevamo con noi un meccanico che capiva queste cose ed è rimasto un’ora vicino a me per sistemare il motore e ha tolto il filo. Quando abbiamo provato ad avviare il motore non voleva partire. Ci sono voluti circa 10 minuti prima che partisse, perché era bloccata nella sabbia; quindi, siamo scesi e l’abbiamo spinta per circa 15 minuti finché non è ripartita. Dopo tutta questa fatica mi sono addormentato sulla barca. Mi sono svegliato alle 5 di mattina pensando di essere già vicino a Lampedusa. Abbiamo incontrato un peschereccio, pensavamo fossero immigrati ma erano pescatori che ci hanno informato che eravamo ancora a Sfax (la regione da cui stavamo emigrando), nella città di Qarqna. Eravamo ancora in pericolo. Quando ho sentito questo, poiché avevo molta paura del mare, ho cominciato a vomitare e mi è salita la febbre. Tremavo e pregavo. 

 

“A Dio apparteniamo e a Lui ritorneremo, proteggici dunque con la tua potenza, o Dio. Tu sei Dio e fai tutto meglio di noi, tu sai quello che è giusto per noi.” 

 

Il mare era agitato e la lunghezza delle onde era di circa 8 metri. Avevo molta paura. Tra gli adulti io ero il più giovane e quindi gli uomini tra i 20 e i 30 anni cercavano di calmarmi. Finalmente alle 18 abbiamo intravisto Lampedusa e mi sono calmato un po’. Ho iniziato a tranquillizzarmi per tre motivi: perché avevo lasciato il territorio tunisino, perché sarei stato libero come ho sempre desiderato e perché non ero morto per grazia di Dio. Per fortuna il mio telefono riusciva a collegarsi su Internet con la linea italiana.  Poi ho provato a telefonare al 118 ma lo stesso. Ho fatto un terzo tentativo con il 117 e mi hanno risposto ma il numero era collegato a Palermo e non a Lampedusa, quindi hanno provato a contattare la Croce Rossa, che, però, ci ha detto che non potevano venire a soccorrerci perché non c’era nessuna barca disponibile in quanto erano già tutte occupate in altri salvataggi. 

A mezzanotte finalmente siamo riusciti ad approdare a Lampedusa e il mio primo pensiero è stato quello di avvisare la mia famiglia che non sentivo da qualche giorno. La prima telefonata è stata a mio fratello e la seconda ai miei genitori che, appresa la notizia del mio arrivo hanno esclamato “Hamdulillah” (in arabo “grazie a Dio”) tra lacrime di gioia. 

Il primo incontro è stato con la Croce Rossa e con il mediatore tunisino, mi è stato dato un braccialetto identificativo con il numero 1045.  Da Ghaith, ragazzo tunisino, sono diventato solo un numero. È stata cancellata la mia identità, la mia storia.  La prima domanda che ci è stata posta è stato “chi è il trafficante e chi l’autista del peschereccio?” Ciò che io ho provato in quel momento è stata rabbia e frustrazione, ho pensato “ho affrontato il mare per due giorni tra fame, freddo e paura di morire e non mi viene nemmeno chiesto come sto!” Nessuno ha risposto alla domanda perché era a rischio la nostra vita. Chi avesse risposto avrebbe avuto problemi in Italia. 

Quella notte mi sono messo a terra, non avevo un letto, una camera o un tetto sopra la testa, avevo solamente una coperta termica gialla che ho messo a terra per riposare. La prima notte è stata confusa e difficile. Ho pensato tanto, c’erano tante persone, troppe... C’era chi parlava, chi piangeva, chi si disperava, chi dormiva, chi litigava per nulla. Troppa confusione per riuscire a dormire e spegnere il cervello. 

La mattina dopo c’è stato un trasferimento di circa 60 persone verso Roma, io, sentendomi stretto e oppresso, sono scappato insieme a cinque ragazzi di origine tunisina come me per cercare qualcosa da mangiare. Dopo aver mangiato un panino al bar offerto da alcuni benefattori italiani abbiamo deciso di fare un giro per l’isola. Davanti ai miei occhi passanti indifferenti, famiglie felici che mi ricordavano la mia, ero sporco e mi sentivo un estraneo in terra di altri. Nel pomeriggio siamo rientrati, ovviamente senza farci vedere da nessuno. La seconda sera è trascorsa come la prima, tra caldo, insonnia e paura. Tutti e cinque i giorni trascorsi a Lampedusa sono stati i medesimi, poco cibo, poco sonno e molta ansia. 


Il quinto giorno è arrivato un operatore che ha detto che avrebbe portato via 7 minorenni. Dopo esserci messi in fila io ho alzato la mano insieme ad altri sei ragazzi. 

Nella convinzione di recarmi in un posto migliore ho seguito quell’operatore dai baffi e dai capelli neri che mi faceva intravedere un barlume di speranza. Siamo saliti su un pullman di pochi posti. Destinazione? Sconosciuta.  

Siamo arrivati al porto e siamo risaliti su una nave...  

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